Loro Piana, la ética y la verdad detrás del Cashmere

Loro Piana ha sido puesta bajo administración judicial en Italia por presuntas violaciones graves de los derechos laborales en su cadena de subcontratación.
No hablamos de una crisis financiera ni de un error puntual.
Hablamos de estructuras enteras que, para funcionar, necesitan que nadie pregunte demasiado.
Con esta noticia se produce una herida difícil de cerrar. Porque, cuando una marca construida sobre el prestigio con solera y la pureza material, aparece asociada a jornadas de 90 horas, sueldos miserables y trabajadores durmiendo en el mismo lugar donde trabajan, no es solo una contradicción. Es una forma de traición.
Traición a un legado y un engaño clarísimo a todo lo que se supone ofrece.
No se puede hablar de savoir-faire mientras se precariza a quienes lo hacen posible.
No se puede construir un relato sobre la excelencia si se permite que el sistema se alimente de zonas oscuras.
Es más, ¿de qué artesano hablamos? ¿De personas casi seguramente poco cualificadas sustituyendo a artesanos y cadenas de suministro cualificadas solo para abaratar costes de producción?
No se puede defender el legado si, por dentro, todo lo que lo sostiene ha perdido identidad y valor.
Esto no va solo de responsabilidad jurídica.
Va de responsabilidad simbólica y ética.
Porque, la verdad, cuando ves esto, se te quitan las ganas de comprar y, sobre todo, se te quitan las ganas de creer y de defender el lujo.
Lo más grave es que esto no es un caso aislado.
Ya son varias las casas puestas bajo administración judicial por los mismos motivos: Valentino, Giorgio Armani Operations, Dior, Alviero Martini.
No hablamos de marcas marginales, sino de referentes absolutos del lujo internacional.
Cuestión que agrava aún más la situación. Porque si quienes deberían marcar el estándar operan con estructuras donde reina la opacidad, ¿qué queda del relato de excelencia, de humanidad, de savoir-faire?
¿Cómo puede un sistema que presume de proteger su herencia permitir que se degraden los derechos más básicos de quienes lo sostienen?
¿Cómo puede una industria entera seguir reclamando autenticidad mientras tolera —o directamente alimenta — una lógica de explotación sistemática?
No es una narrativa lo que se viene abajo, es el sentido mismo del lujo lo que se desintegra.
No se puede luchar contra la falsificación si dentro del propio sistema se “falsifican” los principios que se dicen defender.
No se puede hablar de lujo como símbolo de excelencia si la estructura que lo sostiene está basada en el silencio, el miedo o la indiferencia.
El lujo no se subcontrata. La moral, tampoco.
Si dentro de una empresa no hay libertad, no hay claras las líneas rojas que no hay que sobrepasar en pro de la facturación, entonces, tampoco puede haber belleza; y, si no hay belleza en lo invisible, lo visible se convierte en pura superficie.
Un lujo superficial y sin alma.
El daño no es solo de reputación. Es de identificación, de aspiración, de fe.
Y, con él, se desmorona también el imaginario en el que muchos habíamos creído.
Por este motivo, este acontecimiento no es solo un escándalo: es una llamada a repensar el modelo.
Hace tiempo que digo que no lo veo sostenible, que veo el lujo alejarse de su sentido.
Quizás es hora de preguntarnos qué estamos entendiendo por lujo.
De dejar de confundir storytelling con verdad, o artesanía con simple estética.
Es también hora de recordar que no hay ni lujo ni belleza sin humanidad, ni herencia sin respeto.
La industria necesita un cambio de enfoque real, no cosmético.
Uno que no se limite a comunicar bien, sino a operar bien.
Uno que devuelva sentido, dignidad y coherencia a la idea misma de excelencia.
¡El lujo del futuro será ético o no será!
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Loro Piana, l’etica e la verità dietro al cashmere
Loro Piana è stata posta sotto amministrazione giudiziaria in Italia per presunte gravi violazioni dei diritti dei lavoratori nella sua catena di subappalto.
Non si tratta di una crisi finanziaria, né di un errore isolato.
Parliamo di strutture intere che, per funzionare, hanno bisogno che nessuno faccia troppe domande.
Questa notizia apre una ferita difficile da rimarginare.
Perché quando un marchio costruito sul prestigio con radici profonde e sulla purezza dei materiali si ritrova associato a turni di 90 ore, salari miseri e lavoratori che dormono nello stesso luogo in cui lavorano, non è solo una contraddizione.
È una forma di tradimento.
Tradimento di un’eredità e inganno evidente rispetto a tutto ciò che si presume offra.
Non si può parlare di savoir-faire mentre si precarizza chi lo rende possibile.
Non si può costruire un racconto sull’eccellenza se si permette al sistema di alimentarsi di zone d’ombra.
Anzi: di quale artigiano parliamo? Di persone probabilmente poco qualificate che sostituiscono artigiani e filiere specializzate solo per ridurre i costi di produzione?
Non si può difendere il patrimonio se, all’interno, tutto ciò che lo sostiene ha perso identità e valore.
Non si tratta solo di responsabilità giuridica.
Si tratta di responsabilità simbolica.
Ed etica.
Perché, davvero, quando si leggono certe cose, passa la voglia di comprare.
E soprattutto, passa la voglia di credere e di difendere il lusso.
La cosa più grave è che non si tratta di un caso isolato.
Sono ormai diversi i marchi messi sotto amministrazione giudiziaria per gli stessi motivi: Valentino, Giorgio Armani Operations, Dior, Alviero Martini.
Non si parla di marchi marginali, ma di riferimenti assoluti del lusso internazionale.
Ed è proprio questo ad aggravare ulteriormente la situazione.
Perché se anche chi dovrebbe fissare lo standard si affida a strutture dove regna l’opacità, cosa resta del racconto di eccellenza, di umanità, di savoir-faire?
Come può un sistema che afferma di proteggere la propria eredità permettere che vengano calpestati i diritti più basilari di chi lo rende possibile?
Come può un’intera industria continuare a rivendicare autenticità mentre tollera — o addirittura alimenta — una logica di sfruttamento sistemico?
Non è una narrazione quella che si sta sgretolando.
È il senso stesso del lusso che si disintegra.
Non si può combattere la contraffazione se, all’interno del sistema, si falsificano i principi che si afferma di difendere.
Non si può parlare di lusso come simbolo di eccellenza se la struttura che lo sostiene si basa sul silenzio, sulla paura o sull’indifferenza.
Il lusso non si subappalta.
La morale, nemmeno.
Se all’interno di un’azienda non esiste libertà, se non sono chiari i limiti che non si devono superare in nome del fatturato, allora non può esserci bellezza.
E se non c’è bellezza nell’invisibile, ciò che si vede diventa solo superficie.
Un lusso superficiale e senz’anima.
Il danno non è solo reputazionale.
È un danno di identificazione, di aspirazione, di fiducia.
E con esso, si sgretola anche l’immaginario in cui molti avevano creduto.
Per questo motivo, questo fatto non è solo uno scandalo: è una chiamata a ripensare il modello.
È da tempo che dico che non lo vedo sostenibile.
Che vedo il lusso allontanarsi dal suo senso.
Forse è ora di chiederci cosa intendiamo davvero per lusso.
Di smettere di confondere storytelling con verità, o l’artigianato con la sola estetica.
È anche il momento di ricordare che non esiste né lusso né bellezza senza umanità, né eredità senza rispetto.
L’industria ha bisogno di un cambio di paradigma reale, non cosmetico.
Un cambiamento che non si limiti a comunicare bene, ma a operare bene.
Un cambiamento che restituisca senso, dignità e coerenza all’idea stessa di eccellenza.
Il lusso del futuro sarà etico, o non sarà.
📸 www.loropiana.com
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