LA TORTORA Y EL AMOR QUE NO MUERE: Reflexiones desde mi jardín en el día de Pascua

No fue una paloma. Fueron due tortore.

No tórtolas, como se diría en castellano, sino tortore, como las llamaría Leonardo en su lengua natal, que es también la mía, en el Bestiario…

Aparecieron en mi jardín en este día de Pascua, hace un buen rato, mientras cocinaba comidas ricas y tradicionales para los míos, cuestión que me inspiró este escrito. Las vi desde la puerta que da a mi pequeño jardín. Tan discretas, tan silenciosas. Sin anunciarse. No vinieron a adornar el aire, sino a decirme algo. Estoy segura. Y lo dijeron todo con su sola presencia, que no me parece casualidad.

Los símbolos significativos se hacen evidentes a quienes sabemos leerlos, a quienes tenemos ganas de descifrarlos. Siempre he tenido una mirada que planea por encima de lo que los otros no notan.

Estamos acostumbrados a imaginar el amor espiritual con las alas blancas de una paloma. Y no es casual: la iconografía cristiana ha asociado tradicionalmente la paloma con el Espíritu Santo, con la paz, con la promesa del bautismo y del cielo. Pero hay otra ave, más tímida, menos celebrada, que guarda un significado aún más profundo, si cabe: la tortora.

La fidelidad como forma de amor absoluto

La tortora no es símbolo del deseo. Es símbolo del vínculo. No del impulso, sino de la permanencia. En los textos bíblicos —como en Levítico 5,7— se menciona como ofrenda pura, permitida a quienes no podían ofrecer un cordero. Es decir: símbolo de humildad, pero también de dignidad espiritual.

Y en el Cantar de los Cantares — 2,12 —, cuando se anuncia la llegada de la primavera, no es la paloma quien aparece, sino la tortora:
«Se ha oído en nuestra tierra la voz de la tórtola.»
Ese canto no anuncia simplemente la belleza de las flores, sino el renacer del amor.

Lo más hermoso, sin embargo, lo escribió Leonardo da Vinci en su Bestiario:
«La tortora non fa mai fallo al suo compagno, e se l’uno more, l’altro osserva perpetua castità, e non si posa mai su un ramo verde, né beve mai acqua chiara.»
No es que elija no amar de nuevo. Es que no puede. Su lealtad no es un código: es naturaleza. Una sola vida. Un solo amor.

Cristo y el símbolo más alto del Amor

¿No es, en el fondo, este el corazón del mensaje cristiano? Un Amor que no se interrumpe ni con la muerte. Un amor que no se reemplaza, ni se sustituye, ni se desdice. En la Pascua los cristianos celebramos exactamente eso: la fidelidad divina que no se rinde al dolor, ni al abandono, ni al sepulcro.

La tortora no fue nunca protagonista en la pintura religiosa. No posa sobre las cabezas de los santos, ni aparece en las Anunciaciones. Pero acaso por eso conmueve más. Porque no es un símbolo público, sino íntimo. No necesita gloria. Le basta con aparecer, en silencio, cuando y a quien tiene el alma lista para reconocerla.

La lección del arte, la Biblia y la vida

En el arte antiguo, le tortore aparecen a veces al pie de figuras recogidas, como en ciertas representaciones de María Magdalena, no para subrayar su pasado, sino su transformación interior. El artista flamenco Jan van Eyck las retrató en arquivoltas como símbolo del alma que, aun herida, sigue fiel a la luz.

Y hoy, en mi jardín, han llegado dos. No una. Dos. Como si quisieran recordarme que el Amor verdadero no existe solo en el recuerdo. Que sigue posándose sobre la tierra cuando uno sabe mirar. Existe en lo presente y se perpetúa en el futuro de esa pareja que, en esta bella primavera, rendirá sus frutos y prolongará su amor hasta después de la muerte. Porque la Pascua no se celebra en las iglesias únicamente, sino también en los patios íntimos, en los gestos sencillos, en los signos que no piden atención, pero la merecen toda. Se celebra para los cristianos y para los que no lo son, porque su simbología no es exclusiva de una religión, sino de un sentir, de una forma de amar.

No eran palomas. Eran tortore.
Y quizás por eso he entendido, por fin, que el Amor Divino se anuncia en la constancia sagrada de lo que permanece, como el que se profesan estas simbólicas aves.

La gracia del asunto, que no carece tampoco de simbolismo metafórico es que, después llegó a mi pequeño Paraíso terrenal, una urraca con su estruendo y algo de prepotencia. Quiso espantarlas, aunque no lo consentí. No fue echada, no del todo. Le “hice entender” que había sitio para todos, pero no a costa de la paz de los otros. En ese gesto —tan simple, tan natural— comprendí también que la armonía no se impone: se protege. Y que amar no significa excluir, sino cuidar el equilibrio.

«En la casa de mi Padre hay muchas moradas» (Juan 14,2).
En mi jardín también. Hay lugar para todas las aves y seres capaces de vivir en armonía y equilibrio con la Creación y los demás.

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LA TORTORA E L’AMORE CHE NON MUORE

Riflessioni dal mio giardino nel giorno di Pasqua

Non fu una colomba. Furono due tortore.

Non tórtolas, come si direbbe in castigliano, ma tortore, come le chiamerebbe Leonardo nella sua lingua madre — che è anche la mia — nel suo Bestiario…

Sono apparse nel mio giardino in questo giorno di Pasqua, da un bel po’, mentre preparavo piatti buoni e tradizionali per i miei cari. È stato proprio questo momento a ispirarmi queste righe. Le ho viste dalla porta che dà sul mio piccolo giardino. Così discrete, così silenziose. Senza annunciarsi. Non erano lì per adornare l’aria, ma per dirmi qualcosa. Ne sono certa. E l’hanno detto tutto con la sola presenza — che non mi sembra affatto una coincidenza.

I simboli significativi si rivelano a chi sa leggerli, a chi ha il desiderio di decifrarli. Ho sempre avuto uno sguardo che plana un po’ più in alto, sopra ciò che gli altri non notano.

Siamo abituati a immaginare l’amore spirituale con le ali bianche di una colomba. E non è un caso: l’iconografia cristiana ha tradizionalmente associato la colomba allo Spirito Santo, alla pace, alla promessa del battesimo e del cielo. Ma esiste un altro uccello, più timido, meno celebrato, che custodisce un significato ancora più profondo: la tortora.

La fedeltà come forma di amore assoluto

La tortora non è simbolo del desiderio. È simbolo del legame. Non dell’impulso, ma della permanenza. Nei testi biblici — come in Levitico 5,7 — viene menzionata come offerta pura, permessa a chi non poteva offrire un agnello. Dunque: simbolo di umiltà, ma anche di dignità spirituale.

E nel Cantico dei Cantici — 2,12 —, quando si annuncia l’arrivo della primavera, non appare la colomba, ma la tortora:
“Si è udito nella nostra terra il canto della tortora.”

Quel canto non annuncia semplicemente la bellezza dei fiori, ma la rinascita dell’amore.

La cosa più bella, però, l’ha scritta Leonardo da Vinci nel suo Bestiario:
«La tortora non manca mai al suo compagno, e se uno dei due muore, l’altro osserva perpetua castità e non si posa mai su un ramo verde, né beve mai acqua limpida.»

Non è che scelga di non amare di nuovo. È che non può. La sua lealtà non è una regola: è natura. Una sola vita. Un solo amore.

Cristo e il simbolo più alto dell’Amore

Non è forse questo, in fondo, il cuore del messaggio cristiano? Un Amore che non si interrompe neanche con la morte. Un amore che non si sostituisce, che non si ritratta, che non si esaurisce. A Pasqua i cristiani celebrano proprio questo: la fedeltà divina che non cede al dolore, né all’abbandono, né alla tomba.

La tortora non è mai stata protagonista nella pittura religiosa. Non si posa sulle teste dei santi, né compare nelle Annunciazioni. Ma forse proprio per questo commuove di più. Perché non è un simbolo pubblico, ma intimo. Non cerca gloria. Le basta apparire, in silenzio, quando e a chi ha l’anima pronta per riconoscerla.

La lezione dell’arte, della Bibbia e della vita

Nell’arte antica, le tortore compaiono talvolta ai piedi di figure raccolte, come in certe rappresentazioni di Maria Maddalena — non per sottolinearne il passato, ma la trasformazione interiore. Il pittore fiammingo Jan van Eyck le ha ritratte nelle archivolte come simbolo dell’anima che, pur ferita, resta fedele alla luce.

E oggi, nel mio giardino, ne sono arrivate due. Non una. Due. Come a volermi ricordare che l’Amore vero non esiste solo nel ricordo. Che continua a posarsi sulla terra quando si sa guardare. Esiste nel presente, e si prolunga nel futuro di quella coppia che, in questa dolce primavera, darà frutti e prolungherà il suo amore oltre la morte.

Perché la Pasqua non si celebra solo nelle chiese, ma anche nei cortili intimi, nei gesti semplici, nei segni che non chiedono attenzione, ma la meritano tutta. La celebrano i cristiani e anche chi non lo è, perché la sua simbologia non è esclusiva di una religione, ma di un sentire, di un modo di amare.

Non erano colombe. Erano tortore.
E forse per questo ho capito, finalmente, che l’Amore Divino si annuncia nella costanza sacra di ciò che resta. Come quello che si professano questi uccelli simbolici.

La cosa curiosa — che non è priva anch’essa di significato metaforico — è che, dopo, nel mio piccolo Paradiso terrestre è arrivata una gazza, con il suo frastuono e un’aria un po’ prepotente. Ha cercato di spaventarle, ma non gliel’ho permesso. Non è stata cacciata, non del tutto. Le ho “fatto capire” che c’è posto per tutti, ma non a costo della pace degli altri. In quel gesto — così semplice, così naturale — ho compreso anche che l’armonia non si impone: si protegge. E che amare non significa escludere, ma custodire l’equilibrio.

“Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore” (Giovanni 14,2).
Anche nel mio giardino. C’è spazio per tutti gli uccelli e gli esseri capaci di vivere in armonia e in equilibrio con la Creazione e con gli altri.